UMBERTO GAMBA pittore


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Testo ALI DI PARTENZA

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ALI DI PARTENZA

Premessa: chi, come e perché.
Il contesto
L'odissea di Angela accanto a suo marito, prof. Luciano Scainelli, colto e stimato preside bergamasco, è iniziata nel 1998, quando gli fu riconosciuto un grave scompenso epatico, insorto nell'adolescenza e via via aggravatosi in modo silente e mai chiaramente diagnosticato. Per cinque anni è stato un continuo peregrinare da uno specialista all'altro, da un ospedale all'altro, nell'attesa e nella speranza che i medici decidessero per l'unica soluzione ormai possibile: quella del trapianto. Si è giunti così al giugno dell'anno 2003, quando le condizioni di Luciano sono irreversibilmente peggiorate e la situazione è precipitata. Nonostante i vari centri ospedalieri fossero tutti d'accordo nell'urgenza del trapianto a breve termine per la sopravvivenza del paziente, nessuno di essi lo metteva in lista di attesa, rendendo così palesi gravi carenze nel sistema sanitario, sia dal punto di vista strutturale, sia sotto l'aspetto umano. È impossibile qui descrivere le sofferenze e i sacrifici fisici e morali affrontati da Angela e Luciano, ma con tenacia non hanno desistito e, grazie all'interessamento di uno specialista epatologo di Milano, nel dicembre 2002, si
è aperta la possibilità del trapianto di fegato a Londra. Dopo un'ennesima interminabile e sofferta serie di esami clinici, sono riusciti ad ottenere la liberatoria per l'intervento all'estero. Sono finalmente arrivati a Londra il 9 febbraio 2003 e Luciano è stato trapiantato il 9 marzo. È morto tre giorni dopo per una complicazione post-operatoria, dovuta forse anche alle sue condizioni fisiche già troppo compromesse. Aveva cinquantasette anni. L'eccezionalità di questa vicenda sta nel contesto in cui è avvenuta che ha richiesto un dispendio straordinario di energie e che ha testimoniato la forza della fede.
Angela, affetta allora da grave deficit visivo, ha gestito a Londra con grande coraggio la difficile situazione senza neppure conoscere la lingua inglese. Si è ritrovata poi ad affrontare con fatica tutti i problemi connessi alla prematura morte del marito e alla riorganizzazione della sua vita. Pavese di nascita, è a tutti gli effetti cittadina di elusone, la bella località dell'Alta Valle Seriana dove si è trasferita con il marito dal 1969, anno del loro matrimonio, e dove è impegnata in molte attività e circondata di affetto.


Un anno dopo…
Ho scritto “Ali di partenza” di getto un anno fa, nella prima estate dopo la morte di mio marito.
In questo anno è come se avessi percorso anni luce, proiettata in avanti in modo travolgente e brutalmente totalizzante.
Da quell’esplosione di dolore tutta la mia vita è partita per dimensioni non ancora conosciute, più vere, più alte, più profonde che avverto più “sante”, nonostante i problemi che la mia debolezza mi pone.
Continuo a lottare per non raggrinzirmi in sospiri amari, in occhi umidi e vuoti, bagnati di lacrime non liberanti, frutto di sofferenza e fatica non accettate. Continuo ad avvertirmi incredula nei confronti di ciò che mi è accaduto… io, che ho sempre custodito dentro con trepidazione le meraviglie dei piccoli prodigi quotidiani, colpita da un dolore così amaro e sconvolgente, al quale non potevo essere preparata, un dolore che può scavare gallerie cieche e soffocare l’aria…io, che mi sentivo fatta solo per il sole, per il cielo azzurro, per gli orizzonti sconfinati, per il volo e il canto, catapultata nel nulla dove le ombre stagnano sull’anima e offuscano lo sguardo…
Tutto questo silenzio… di silenzio si può anche morire.
Ricordi che martellano in testa, scheletri che premono, si celano e poi ritornano, cozzano tra loro, vogliono contendersi la mia mente… ma con incredibile, lucida intensità riesco a leggere nella trama esile degli avvenimenti che si succedono un unico filo conduttore: sono arrivata fin qui per celebrare l’amore nella morte.
L’amore umano come riflesso dell’amore di Dio, quello di Dio che illumina l’amore umano… l’amore vero, insomma, nella mia esistenza, in ciascun momento dei giorni trascorsi, in questo giorno, nei giorni futuri.
Così ringrazio il Signore per quello che ho vissuto, per quello che sono nella mia realtà personale e nel mio essere con me stessa e con gli altri.
Chiedo perdono delle mie ottuse interpretazioni dei fatti, chiedo luce e umilmente cammino.
Prego perché la mia fede sia più forte e non abbia troppe incertezze; in ogni attimo dovrei sentirmi sostenuta, abbracciata, incoraggiata, amata da Dio, dovrei essere capace di stupirmi ancora, nonostante tutto, della gratuità e della grandezza dell’amore, per aprirmi alla meraviglia di questo cammino.
Ma non è facile.
Anche se mi sembra che la sofferenza mi abbia fatto raggiungere una vetta alta, so che i confini si sposteranno ancora e sono pronta, ma ho paura, perché mi sento posta su sentieri troppo scoscesi, con un peso da portare insopportabile per le mie spalle.
Eppure in questo anno si sono susseguite tante di quelle “sorprese” gioiose e dolorose, tanti di quei piccoli “miracoli”, che dovrei essermi convinta di non camminare da sola.
Luciano c’è. Non mi sembra vero, ma ci credo, mi sembra impossibile, ma ci fondo le mie scelte.
A volte temo di vivere una specie di sogno, ma niente mi è mai cresciuto dentro in modo così concreto e vivo, anche se fuori dal tempo, e ne ho chiara la coscienza.
La mancanza di mio marito mi consuma in una struggente nostalgia, ma vivo in piena sintonia con lui.
Avverto sempre più forti momenti in cui mi arrivano da lui misteriosi, indefinibili messaggi in una vicinanza affettiva ritrovata e nello stesso tempo nuova, più immediata e più profonda, una corrente di vita condivisa mai provata prima, una speranza e un’attesa che trasformano.
Più vicino a me di me stessa, più intimo dei miei pensieri segreti il mio “compagno di viaggio” sta a poco a poco trasformando la landa desolata della solitudine nel piccolo giardino di un nuovo incontro d’amore.
Perciò sto affacciata al davanzale di miei giorni e guardo lontano con timida speranza.
In questa dimensione di mistero l’anima è chiamata a dilatarsi per andare a lambire le spiagge dell’infinito e allora sto cercando di fare della mia storia una specie di bucato: i panni intrisi di lacrime, di fango, di sangue, sciacquati in una sorgente limpida, cominciano ad asciugare al sole e saranno prima o poi pronti per diventare tovaglie dell’altare.


Dedicato a...
Dedico Ali di partenza a chi, come me, ha perso troppo presto il compagno o la compagna della sua vita e si è sentito crollare il mondo dentro e intorno e morire a sua volta, senza più identità e punti di riferimento. Lo dedico a chi, come me, sta cercando di fare di una scomparsa una nuova presenza, a chi sta percorrendo tra le lacrime un cammino di speranza per non chiudersi alla vita e alla comunione degli spiriti, oltre il tempo e lo spazio. Dedicato ad Adelina... anche lei ha lottato come una furia per accompagnare il suo Fabio a quel trapianto dal quale non si è più risvegliato, anche lei ha mille "se" e mille "perché" senza risposta e ricordi traumatici con i quali rappacificarsi. Dedicato a Silvana.... il suo Lorenzo, compaesano di mio marito, ha voluto partecipare al funerale e un mese dopo il suo cuore ha ceduto di schianto sul sentiero del rifugio di montagna dietro il loro paese natale; stava andando con gli amici a dare una mano lassù e l'ha lasciata in silenzio, incredula e sbigottita. Dedicato a Giovanni... il cugino prediletto di Luciano... ha trovato la sua Aurelia, così buona e così allegra, priva di vita sul pavimento di casa quando ormai sembrava che l'intervento al cuore fosse riuscito e superato, ed è stato come se si spegnesse il sole. Dedicato a Claudia... ha salutato il suo Franco,
pieno di progetti per aiutare gli altri, che usciva per recarsi al lavoro, senza immaginare la tragedia che lo aspettava sulla strada poco dopo e troppo crudelmente si è ritrovata senza di lui al suo fianco.
Dedicato a Gina... sono passati alcuni anni, ma il suo Gianni, che le è morto improvvisamente tra le braccia, le manca come e più del primo giorno e lei si strugge di nostalgia. Dedicato a Bepi... ha visto la sua dolcissima Giò scivolare a poco a poco nel sonno mortale e i suoi occhi appannarsi e chiudersi per sempre, ma non gli sembra vero.
"Chi amammo e perdemmo non è più là dov'era prima, ma dappertutto dove noi siamo". (San Giovanni Crisostomo)



«Sono venuto perché abbiate la vita…» (Gv 10,10).
E’ difficile oggi incontrarsi col concetto di “morte”;
la parola “morte” è stata scomunicata e ostracizzata dalla nostra società
che si abbuffa di giovanilismo e vitalismo esasperato…
anche se tutto ciò viaggia parallelamente a stili di vita
assolutamente contrari e che inquietano.

“Non occorre essere psicoanalisti per decifrare i segni
che vengono dal suicidio dell'Occidente
con la cadella natalità e l'aborto di massa;
con la droga divenuta abigeneralizzata;
con l'esaltazione dell'omosessualità, questo amore sterile per eccellenza
e, dunque, "morto";
col culto dell'auto, maggior causa di decessi assieme a cancro e infarti;
col consumo senza precedenti di alcol, tabacco,
pornografia stessa (niente è più funereo del corpo umano
esibito brutalmente nella sua anatomia,
come sul bancone dell'obitorio o della macelleria).” (V. Messori)

Mi è piaciuto dunque mettermi umilmente a fianco di Angela
sul percorso che sta facendo, senza evitare le lacrime, i rimpianti, i rimorsi...
dentro l’esperienza del dolore e della morte,
cogliendo in questo cammino un interesse vero per la vita
quale compimento della promessa Pasquale:
«Sovenuto perché abbiate la vita, e l'abbiate in abbondanza» (Gv 10,10).

Leggendo il suo testo
ho viaggiato con lei sul pullman che va da qui a lì,
ho viaggiato con lei sul cammino che va dal buio della morte alla luce della Resurrezione.

Ho dato i miei occhi e le mie foto per visualizzare, anche al lettore, il viaggio sul pullman;
ho condiviso i miei quadri per tentare di dare immagine al percorso dell’anima.

Ringrazio Dio e Maria di avermi dato modo di
“fare dono nella creazione artistica” (“Lettera di Papa Giovanni Paolo II agli artisti”) della mia Fede e del mio grande desiderio di Vita.

Umberto Gamba

cap. 1 L’urlo del dolore

Il pullman scende lentamente verso la città. Il ronfare sordo del motore, il monotono cicaleccio delle persone, l’afa soffocante la imprigionano in un pigro torpore. Con gli occhi semichiusi segue il contorno scuro dei monti che degradano verso il fondovalle, e sembra il dorso di un enorme drago addormentato. Nel cielo cirri chiari si sfilacciano in un pallido azzurro.
L’atmosfera ovattata e stagnante paralizza il suo corpo e le sue reazioni, acquietandoli in un inaspettato riposo. Ma nella mente, crudele e tagliente, pulsa implacabile il pensiero che non l’abbandona mai:
È morto… non c’é più… sono rimasta sola…
E nel cuore esplode ancora un urlo straziante e dirompente, come nel brillare di una serie interminabile di mine che squarciano il fianco della montagna. Nella roccia, giorno dopo giorno, rimangono buchi, ferite che la rendono più fragile ed indifesa. Sofferenza pura, che penetra all’interno, sempre più a fondo. Ma ormai è chiaro: il dolore bisogna guardarlo in faccia, viverlo senza sconti. Non ci sono scappatoie per lei, né alibi, né “calmanti” se vuole che questa morte (così assurda, così ingiusta! Come non ribellarsi, come dire “sì”?), questa morte inappellabile non si esaurisca in una traumatica, destabilizzante, disperata esperienza.

cap. 2 Quell’annuncio ripetuto

Una pensilina ai bordi della strada, una fermata… simile a chissà quante altre in altre parti del mondo: gente che scende e che sale, gente che si muove, gente viva.
Lui non è più vivo, non è più su questa terra!
Ancora una volta si sorprende a ripercorrere il tempo duro della malattia, i mesi angoscianti dell’attesa, il difficile trasferimento londinese, il temuto e sospirato trapianto… il drammatico crollo delle speranze… Solo immagini sonore dentro, e l’eco concitata dei sentimenti: nessun tentativo di descrizione, di commento; le parole non bastano, non ci sono aggettivi adeguati.
Eppure bisogna afferrare gli appigli luminosi che emergono dal buio e dal silenzio, sembra che giorno dopo giorno lui glieli faccia trovare, glieli metta davanti perché nulla venga rimosso, perché il ricordo non si insterilisca.
È una morte che torna, che non finisce mai… Sa che questi strani ritorni vogliono impedirle di chiudersi a sua volta in una tomba, ben più triste, quella della depressione, della disillusione, dell’angoscia. Capisce che, nonostante le sue molte attività mai interrotte, sta facendo finta di vivere, avvolta nella notte scura che è piombata sulla sua esistenza.
Si mette a pensare agli scritti che lui ha lasciato: quell’annuncio ripetuto più volte risuona forte: Non abbiate paura! Gesù è veramente risorto!
È così. Solo la fede può liberare suo marito e se stessa dal sepolcro, coniugando coraggio e speranza. Ma dov’è finita la fede? Anch’essa pare bloccata, smarrita...

cap. 3 Insidiose tentazioni

Semaforo rosso, il pullman si ferma e sembra non ripartire più. Un moto involontario di impazienza genera una subitanea riflessione: questa morte non può e non deve dire stop alla vita. Alla samaritana e alla Maddalena, come a qualunque donna di ogni tempo dopo allora, è affidata quella consegna:
Va’, annuncia che Cristo è vivo. E ci vuole vivi! La morte però sembra aver dato scacco matto alla vita: la partita è finita. La tentazione di pensare che le cose siano andate effettivamente così, è forte. Anche se lei non riesce a soffocare la sensazione (negli anni divenuta certezza) di sempre: la chiamata ad essere “angelo” non solo di nome, annunciatrice credibile della straordinaria notizia della morte che ha dato morte alla morte. Come seguitare ad essere messaggera entusiasta della radice della vita nuova quando tutto sembra crollato dentro e intorno? Lo sa, bisogna credere, credere nella Pasqua. E i sigilli più resistenti salteranno e traboccherà la gioia. Se credi nella vittoria del risorto sull’invincibilità della morte ultima e di tante morti penultime, ce la farai. Saprai salire e far salire, cantando l’inno della vita. Parole lette e rilette, che risuonano confortanti e insieme beffarde, tanto sembrano inattuabili e irreali. Ogni giorno lacrime di dolore e di panico, incredulità che diventa sgomento di fronte ad una mancanza crudelmente definitiva.

cap. 4 Brancolando nel buio

Una brusca fermata fa cadere la borsa dal sedile accanto. Le membra sussultano e si scuotono per raccoglierla, ma lo spirito non è presente, come in uno sdoppiamento.
Dove sei? Dove sei? Te ne sei andato! Ma se sei nella pace, aiutami, ti prego, aiutami a vivere o a morire… aiutami ad avere anch’io un po’ di pace!
Lo sente accanto a sé, il volto sorridente e nello stesso tempo preoccupato, irradiante una tenerezza infinita, come quando la guardava in silenzio negli ultimi mesi di vita.
Si rinfranca. In fondo basta continuare come hanno sempre fatto insieme: non usare mai il verbo sperare al passato e cercare Dio anche nel dubbio, anche adesso, in un cammino tutto a ostacoli. Ma lei è stanca e la strada dei rassegnati è più larga, più piana, più affollata. Più grigia… No! Non si sente fatta per il grigiore, per la sconfitta… Non è una creatura del buio, anche se i suoi occhi malati non vedono quasi più. Quante volte vorrebbe chiuderli questi occhi e non riaprirli più sul dramma che l’ha coinvolta suo malgrado e che ha travolto nella sua violenza certezze e sogni. Eppure va avanti a testa alta, attingendo a incredibili risorse di forza e di tenacia. Un’altalena continua di paura e sicurezza, di debolezza e stabilità; troppo spesso sono le prime ad avere il sopravvento. Anche ora, qui, in questa specie di sauna, passato presente futuro la fanno rabbrividire e si copre le braccia nude con le mani in un inutile gesto di difesa. Sofferte contraddizioni la dilaniano senza posa. Mentre si percepisce quasi schiacciata dagli eventi, allo sbaraglio, annientata da un fato avverso, custodisce testardamente incapsulata, come un germoglio difeso dalle stesse spine che lo soffocano, la solidità della fiducia nel progetto divino.

cap. 5 E se invece...

La sirena dell’ambulanza lacera l’aria, si avvicina, supera il pullman, non senza averla prima colpita al cuore, rievocando momenti di terrore. Il terrore chiude. È l’amore che apre. Il suono acuto e stridente diventa così un saluto, il segno di una presenza. Altri pensieri premono, si accavallano.
Dicono che mi è più vicino di prima… eppure non lo “vedo”, non lo sogno… Ma ce n’è bisogno? Perché farne un fantasma, quando esiste la comunione dei santi? È il pregiudizio dell’impossibile (vive in eterno, è qui con me!) che mi impedisce di abbandonarmi serenamente alla realtà della fede.
È ancora troppo titubante, non riesce a lasciarsi andare al conforto, le sembra di edulcorare il dato di fatto di una scomparsa senza possibilità di rimedio. L’incredibile che diventa palpabile, la morte che si fa ricchezza di vita per lei, per tutti: troppo bello per essere vero!
Se invece fossero solo parole vane e se invece alla fine, dopo essersi fidata della speranza, non cambiasse nulla e si ritrovasse ancora più crudelmente colpita, impotente di fronte all’abissale solitudine pronta ad inghiottirla?
Oscurità, desolazione… un’agonia dell’anima, come ai piedi della croce. Quante volte riecheggia dentro il grido di Gesù:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Rinunciare per acquistare, perdere per trovare, in un vertice di dolore - amore di un’intensità sovrumana.

cap. 6 Una realtà lacerante

Un alterco tra un giovane di colore senza biglietto e un passeggero indispettito spezza la tensione interiore e la riporta impietosamente al momento contingente, che le appare limitato, sprecato, estraneo e nel contempo familiare, già vissuto, già superato… Si sente stranamente avanti rispetto alle situazioni concrete, o meglio ne è trascinata fuori dal tempestoso dramma che si svolge dentro di lei.
Coraggio e senza fretta… è l’esortazione di un caro amico, che si è insinuata rassicurante nelle pieghe del pianto e che a tratti la incoraggia nel reggere il peso del vuoto e nell’arginare il travaso del rimpianto. Ma non è una lotta contro il dolore quella che deve ingaggiare; ciò che sta vivendo non è un male da combattere, bensì una condizione esistenziale da interpretare come tempo di prova e occasione di grazia. Ciò che è successo non cessa di interrogarla sul suo senso - non senso, la inchioda a domande che non sono evitabili. Nel profondo cerca da sola a tentoni l’uscita dal labirinto formulando per l’ennesima volta risposte già scartate, già escluse, per accertarsi che la strada imboccata sia davvero quella giusta: pura sfortuna, un incidente di percorso, una fatalità, una maledizione, un castigo di colpe commesse, il prezzo dell’ingiustizia… No, più semplicemente la vita umana, nel suo svolgersi, è impastata del limite della malattia e della morte… il rischio, l’imprevisto, la tragedia sono sempre dietro l’angolo per tutti e a noi sono capitati adesso.
Ma se tutto ciò fa parte della vita, dire che la vita di suo marito è finita è dare alla vita stessa un significato parziale. Si è portati a distinguere tra vita e morte, come se la morte fosse una cosa che arriva dopo la vita e non fosse un suo naturale, necessario sviluppo. Certo, razionalmente il ragionamento fila via, piano e liscio, ma l’impatto con la spietata crudeltà della mancanza di chi ti parlava, ti toccava, ti guardava, ti amava… scalza ogni obiettiva considerazione. Come si fa a dire al cuore che deve farsene una ragione? La scuola della vita era già stata dura anche prima per lei, ma questa è davvero un’esperienza limite!

cap. 7 Fasci di luce

Guarda dal finestrino senza vedere. Un raggio di sole che si riflette in un vetro o in una lamiera rimanda un flash abbagliante.
Come un faro... pensa, e subito la misteriosa straordinaria bellezza del suo matrimonio luccica dalla memoria e dall’anima. Sa che niente e nessuno gliela potrà mai togliere, anche se ora deve arrangiarsi da sola nel quotidiano lottare per superare le difficoltà, spesso poco importanti, ma logoranti. Un dolce e un amaro, un sì e un no la muovono ad ogni passo sulla strada della ricerca di un nuovo equilibrio. Ha capito che non c’è al mondo chi possa guidarla, né sa bene come possa trovare quiete, né sembra che qualcuno sappia mostrarglielo. Non sa com’è la via, ma sa qual è la meta: spalancare la seconda parte del suo matrimonio (quella della vedovanza, che è toccata a lei per chiamata, per vocazione insondabile) sulla dimensione non immediatamente percepibile dove ora si trova il suo compagno di vita. Ripassa mentalmente, a grandi linee, il messaggio inaspettato che un’amica le ha trasmesso e che conserva caro dentro. La tua impalcatura spirituale è stata scossa fin dalle fondamenta, questo ti serve per riordinare i punti oscuri che hai lasciato indietro nel tuo cammino. Non temere il disastro totale, le macerie fumanti non ti abbatteranno, sorvolale con la leggerezza del tuo animo come hai già fatto altre volte sui ruderi della tua esistenza. Affidati a Dio per il tuo cammino. Siano la speranza e la carità artefici del tuo lavoro. La vedovanza è una parola per chi crede che la coppia sia solo materiale, quindi non esiste. Conserva nel tuo cuore radiose le immagini di luminosità, lascia che si sprigionino come fasci di luce in tutte le direzioni. Tuo marito ti guarda e sorride. Non temere la tua sorte e le cose materiali si aggiusteranno. Sei amata e benedetta. Glorifica il Signore e che la pace sia con te.
Ecco, dare spazio agli stimoli e alle percezioni superiori, ripristinare la gioia di vivere, riattizzare la fiducia nel giorno che viene, riverberare l’eternità, anelare al cielo… deve riuscirci.

cap. 8 Alla prova del tempo

Il sole ora la colpisce in pieno e la abbacina. Vampate di calore le rendono il respiro affannoso e le inzuppano di sudore gli abiti leggeri. Tira le tende scure del finestrino alla ricerca di un po’ di sollievo e immediatamente si sente intrappolata. La penombra che si è creata si popola di aloni e bagliori che le danzano intorno come impazziti. Schegge incandescenti girano vorticosamente, percuotono incontrollabili l’angolo dove sta rannicchiata in balia del loro scatenarsi. Implosione del cervello che perde la ragione o proiezione degli insopportabili spaventi ai quali ha dovuto reagire negli ultimi mesi? No, sono semplicemente scherzi dei suoi occhi, ingigantiti dalle sue paure… l’unico rimedio è giocare con loro, sentirseli amici. Salta sul primo lampo che passa, lo cavalca, si lascia trasportare. Si accorge che cambia forma, si dissolve.
Si immerge in riflessioni antiche: nella vita tutto muta, tutto si trasforma.
Anche nel nostro amore quante stupefacenti metamorfosi! È passato attraverso gli eventi che hanno intessuto la nostra storia rimanendo vitale, crescendo, maturando…
Come una pianta, segno della forza e della fatica del creato. Negli anni il vento la sferza, la piega, la incurva; il tronco si fa scuro, nella corteccia si aprono ferite; alcuni rami si spezzano o vengono tagliati e rimangono lì nudi, come braccia monche. Ma le radici affondano sempre più forti e sicure nel terreno e, anche se si mette mano alla scure, dal ceppo foglie e fiori continuano a dare gioia, a ricercare la luce per produrre frutti e nuove piantine generatrici di vita.
Questo è davvero per lei il momento della verità, in cui i suoi sentimenti sono messi alla prova, purificati dal fuoco della sofferenza, resi più belli e sinceri dal crogiolo del patire, segnati dal dolore e insieme da un’intimità che nulla può velare.
Apre le tende. Ci vuole il sole, un grande sole per accettare e rendere sopportabili le contraddizioni della vita. Ci vuole chiarezza che staglia nitidi i contorni. Niente di durevole avviene senza rischi e fatiche, senza essere disposti a rinunce e sacrifici per non scendere a compromessi con se stessi. Ci vuole energia, e luce che scende dall’alto a fugare le ombre e rischiarare l’orizzonte.

cap.9 Fuori dalle trappole

Sul pullman c’è tanta gente, ma nei suoi pensieri è sola.
Il campanello suona per una fermata a richiesta. Il trillo si ripercuote nella testa e si moltiplica rimbalzando come in una stanza vuota. È una stanza piccola dove il suono diventa una musichetta che si ripete e si ripete.
Le pareti sono rivestite da un mosaico di specchi che riflettono sempre la stessa immagine. Anche il pavimento è uno specchio e su di esso piroetta una ballerina con il tutù e le scarpette bianche, i capelli neri raccolti, la postura armoniosa. È la scatola con il carillon che fin da bambina ha desiderato ricevere in regalo.
Si è materializzata nella sua mente e la affascina come sempre, ma nell’istante in cui si proietta nella sua magia, la musica cessa e la ballerina lentamente si ferma.
Come me… la carica del carillon si è esaurita… o si è bloccata… o si è irrimediabilmente guastata… Una ballerina con la molla rotta… una definizione che rende bene lo stato d’animo di tanti momenti di stanchezza e di scoraggiamento, quando si sente mancare le forze fisiche e psicologiche e le verrebbe la voglia di farsi piccola e sparire.
Ma no, non può permetterselo: c’è ancora tanto da fare per mantenere gli impegni presi con se stessa davanti alla bara di suo marito.
Dicono che Dio è capace di scrivere diritto anche sulle righe storte e lei è sicura che paradossalmente dal male grande che l’ha colpita è già nato e può ancora nascere anche tanto bene. Sì, tanto altro bene… Deve contribuire a questo miracolo!
Abbandona la scatola chiusa del carillon con la ballerinetta nella sua posa statica e si ritrova ad abbozzare nuovi progetti, stupendosi di riuscire così facilmente a reinventare la vita. Ma non è per lei che lo fa, non ha mai pensato al proprio benessere o al proprio tornaconto e non capisce quando qualcuno le consiglia: - Adesso devi preoccuparti solo di star bene tu, devi pensare a te stessa! - Per lei è assurdo, incomprensibile, non saprebbe nemmeno da che parte cominciare. È tanto l’amore che può ancora donare, al figlio e alla sua famiglia, ai parenti, agli amici, ai vicini, a tutti quelli che incontrerà. Non per rimuovere dalla memoria la morte di suo marito, ma in suo ricordo, perché il mondo possa in parte godere del bene che lui avrebbe potuto compiere e che ora compirà attraverso di lei.
Unita a te con la preghiera e l’affetto, tu che ora ti trovi nelle mani di Dio, in attesa della risurrezione finale che ci ricongiungerà in Cristo.

cap.10 Non è un sogno!

È giorno di mercato nel paese che stanno attraversando. La folla vociante e colorata si accalca tra le bancarelle a comporre uno strano puzzle in movimento. Nella sosta alla stazione sono salite donne chiassose, cariche di pacchi e di borse. Prendono posto dietro di lei. Ecco, pensa, ora si scambieranno le ultime novità su parenti e conoscenti, parleranno di matrimoni, di nascite e di morti…
Infatti. Ascolta distrattamente perché non può farne a meno e ancora una volta avverte nel discorrere sulla morte un misto di morbosità, afflizione e sollievo. Tutti sono curiosi di saperne i particolari e ne restano dolorosamente colpiti, ma finché riguarda gli altri ci si può illudere di esserne immuni. Una sciocca illusione destinata ad essere inesorabilmente smascherata: quando meno te l’aspetti te la trovi addosso. E quando la morte falcidia la tua carne e le tue ossa è contro natura.
Quante volte ho tentato di sperare che tutto fosse un brutto sogno, un incubo, e che poi ci saremmo svegliati all’improvviso e sarebbe rimasto solo un inquietante ricordo. Ma non è successo…
E faticosamente combatte per non cedere alla fatica, per non subire passivamente le situazioni, per non arrendersi, per non spegnersi e per mantenere inossidabile la fiducia nell’amore del Padre.
Il pericolo è la paralisi dello spirito: irrigidirsi nel dolore, congelare tutto, bloccare ogni possibile trasformazione nel tentativo di soffrire di meno. Troppo spesso si sente mancare il fiato: comincia le cose e non le conclude, non riesce a rendersi indipendente dai contesti immediati, ha l’impressione di non arrivare da nessuna parte, di essere decisamente e per sempre sfasata.
Ma capisce che tutta la sua storia, nonostante l’abbia ferita e sfigurata con incisioni indelebili, esprime un’invocazione e una certezza; per questo sta sforzandosi di reagire alla mancanza di respiro, al corto circuito che rende inadeguati alle meraviglie della vita e all’invito di Dio.
Prendi questa tua storia su di te e portane il peso, ma non ripiegarti, non guardarti il grembo vuoto, e cammina!

cap. 11 La porta aperta

La voce secca del controllore che visiona i biglietti la sferza spaventandola. Mentre estrae il suo dalla tasca interna della borsetta, accarezza con lo sguardo e manda un bacio alla foto del marito. Non lo ha mai amato tanto… mai così prima d’ora. Le manca terribilmente la sua rassicurante presenza quando è in casa, la sua voce al telefono quando è fuori… si è aperto un buco nero, un cratere senza fondo sui cui bordi lei vaga smarrita alla sua ricerca, senza trovare requie. Sarebbe facile lasciarsi scivolare pian piano nella voragine, con la scusa di voler andare dove lui è andato, in verità scappando dalla sofferenza, dalle difficoltà, dalla paura per ciò che è stato e per ciò che l’aspetta.
Grosse lacrime cominciano a scivolarle lungo le guance e non fa nulla per fermarle o per asciugarle. Rotolano giù come perle, calde e cangianti, piccoli concentrati di dolorosa passione.
Eppure mi sento così piena del suo amore che, nonostante tutto, tra alti e bassi, riesco a mantenermi forte e serena. La sua “presenza” in qualche modo mi dà il coraggio di continuare a sperare e a credere nel miracolo della vita.
È così sta a poco a poco imparando a ricominciare a vivere con lui in altro modo, immersa nella ricchezza dell’attimo presente, senza lasciarsi travolgere dalla nostalgia del passato, senza temere troppo un futuro incerto.
Cerca di lasciare aperta la porta dell’anima, protesa ad affinare le capacità dello spirito, rafforzando la fede, addestrandosi all’abitudine verso una comunione che trascende la materialità. Quando ci riesce, sente entrare dentro la consolazione che lui le può donare dal suo nuovo luminoso esistere, che non toglie la croce, ma che le arreca un dolcissimo sollievo.
Non chiamiamoli neppure i morti poiché sono più vivi dei vivi, e ci sono vicini, e presenti, e ci parlano dal di dentro.

cap. 12 C’è morte e morte

Ai bordi della strada due piccioni becchettano e si spostano con brevi voli. Li guarda e li invidia.
Sono liberi di librarsi in alto quando vogliono, di dispiegare le ali al vento. Non sono inchiodati a terra come me che ho catene da trascinare, macigni da spostare. Un supplizio; quando faticosamente credo di aver tolto un ostacolo dai miei passi, eccone un altro e un altro e un altro!
Poter essere un uccello, sorvolare il mondo fasciata d’arcobaleno come la colomba, vedere lontano come l’aquila, cantare ogni giorno come l’usignolo, aver bisogno di niente come il passero…

Si meraviglia dei suoi bizzarri pensieri e si chiede che cosa le impedisce di avere ali se non le prigioni in cui lei stessa si chiude. Si lascia invischiare dalle preoccupazioni e dal pessimismo più spesso di quanto vorrebbe, ma non è facile mantenere quella libertà di spirito che rende le tonnellate pesanti come aria. È riuscita a non farsi stringere come in un sudario dai drappi neri del lutto formale, divincolandosi e facendo leva sull’istinto ribelle che si risveglia in lei ad ogni cenno di imposizione. Ha sfidato le previsioni e i timori che sembravano già tratteggiare la sua strada, ribaltando i comportamenti da vittima del destino e da mendicante d’aiuto che ci si poteva aspettare da una nelle sue condizioni, ma non ne è orgogliosa. Sa di essere soltanto all’inizio di un’opera, del compito arduo di testimoniare il messaggio sotteso a questa morte.
C’è morte e morte. In quella di suo marito c’è stata saggezza, e grazia. La grazia di saper morire, di essere degni di morire, di chiudere il proprio giorno terreno lodando il Signore poiché si va incontro alla luce con le valigie pronte.
In me c’è ancora buio, ma in lui c’è la luce, lui certamente non m’abbandona e mi accompagna con il coraggio che mi manca, regalando levità alle mie zavorre, pazienza alla mia inquietudine, sorriso alla mia amarezza.

cap. 13 Davanti al mistero

Una coppia di anziani si accomoda a fatica nella prima fila. Si muovono con lentezza, impacciati, aiutandosi vicendevolmente. Seduti, scambiano qualche parola sottovoce, lei gli offre una caramella, lui sorride. Complici di un’affettuosa vicinanza. La loro vista le suscita una travolgente ondata di tenerezza venata di malinconia.
Anche noi avremmo voluto invecchiare insieme, ora che tutto era più dolce, più facile… Sarebbe stato così bello tenersi compagnia da tramonto a tramonto, cogliendo anche qualche frutto, veder crescere le bambine, prepararsi senza strappi al distacco…
Si mette a pensare a come suo marito fosse pronto anche alla morte, pur tenendo viva la speranza di riuscire a sopravvivere. Chissà quante cose non dette saranno passate nella sua mente quando a Londra vedeva le sue forze fisiche declinare e il suo corpo corrompersi. Certamente pensava a lei che condivideva il suo calvario ricacciando le lacrime, a lei che sarebbe rimasta sola tra mille difficoltà, e cercava di amarla di più. Ma forse avrà cercato anche di allontanare il pensiero della morte nei contatti con tante persone che gli volevano bene e che lo stimavano, godendosi intanto intensamente gli attimi sereni che gli erano ancora concessi. O forse avrà cercato in ogni modo di esorcizzare la paura, di più, il terrore del momento supremo della vita che ogni uomo non desidererebbe mai affrontare. Avrà cercato una spiegazione, un perché ultimo a tutto quello che gli stava capitando, che rendesse accettabile alla mente la fine di tutti i progetti. Sì, avrà pensato a tutto questo e anche ad altro, ma soprattutto, lei ne è certa, ha cercato la purificazione dell’anima, ha rafforzato la sua fede, ha abbracciato la croce del Risorto. Non si sentiva un condannato, ma un prescelto, come dice il libro della Sapienza.
Agli occhi degli stolti parve che morissero, una disgrazia fu considerata la loro dipartita, e il loro viaggio lontano da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini sono dei castigati, la loro speranza è piena di immortalità.

cap. 14 Una torre verso il cielo

Si sporge verso il corridoio per guardare in avanti, e il nastro grigio dell’asfalto l’attira come un magnete. Fissa le vetture che sfrecciano in senso opposto e quasi aspetta il segnale convenuto con il quale il marito la salutava incrociando il suo pullman. Faceva lampeggiare i fari e ciò bastava per sentirsi insieme. Allora per un attimo la strada diventava un brulichio in festa e il frastuono un grido di gioia che raggiungeva la sommità dei monti.
Ora invece le sembra di viaggiare in un tunnel di nebbia e la sua piccola fiaba si è mutata nello spezzone di un film dell’orrore popolato di mostri metallici eruttanti miasmi mefitici. La cacofonia dei clacson è una tortura nella cassa di risonanza del suo dolore e il traffico convulso è soltanto ostile, perché non c’è più in esso chi l’accompagna con il pensiero e con il cuore. Vorrebbe assopirsi e per un tratto perdere la coscienza del suo patire. Abbassa un poco le palpebre socchiudendole, e lì immobile non sa più di dove è partita e dove è diretta, si percepisce vuota, con l’impalpabilità della polvere e l’inconsistenza dell’ombra.
Ed ecco affacciarsi e farsi strada nella debolezza del momento le solite scene raccapriccianti di ciò che è accaduto e il ricordo diventa una lama che si accanisce nella piaga aperta della sofferenza.
Vorrebbe urlare, scappare dalla realtà in qualsiasi modo, ma capisce che se si lascia annientare dalla disperazione, inchiodata terra-terra, perderà suo marito ancor più definitivamente. Se vuole dividere con lui i giorni che le restano, l’unica possibilità è quella di vederlo non con quel corpo che la malattia e la morte avevano umiliato, ma come Dio lo ha ideato, sorridente e compiaciuto di lei, immerso nella luce della beatitudine celeste.
Devo trovare un assetto stabile e una base sicura per edificarci una torre trasparente che s’innalzi fino al Cielo, da dove il mio spirito possa conversare con lui e lui con me e continuare a sentirci uniti. La torre della sentinella che veglia, la torre del messaggero di lieti annunci, la torre dell’attesa salda dove abitare tranquilla…
È consapevole dell’impegno che deve assumersi: non smettere di perfezionare l’amore nella logica di una nuova stupefacente sinergia. I confini dello spazio sfumano e pian piano cade in un agitato vigile sonno che dura quanto il percorso di una manciata di chilometri, nonostante lei abbia la sensazione di permanerci a lungo.

cap. 15 Altra dimensione

I palazzi della periferia schermano la luce nella loro anonima ordinata compattezza. Un respiro profondo per raccogliere le forze.
Siamo in città… tra poco dovrò scendere per immergermi negli impegni che mi aspettano, nel ritmo della vita che scorre e che reclama il suo tributo. E gli altri mi vedranno ancora come prima e non capiranno la fatica di essere arrivata fin qui e di non piangere e di donare ancora e di credere…
Un’occhiata all’orologio per quantificare un eventuale ritardo e s’incanta a guardare il movimento delle lancette. Trascorrono secondi, minuti, ore, trascorrono le sue giornate, eppure la morte è venuta ad interromperle e la sua storia personale è cambiata. Da allora il tempo non passa più come prima, tutto è stato ribaltato dalle fondamenta, compresa la tradizionale cronologia del prima e del dopo.
La rivoluzione della sua esistenza non è relegabile nell’arco di nessun tempo, il capovolgimento è talmente radicale, orrendo e grandioso, che non è riconducibile a nessuna categoria comune. Per lei la realtà ormai è diversa, infinitamente più grande di quella esternamente rilevabile, è una nuova realtà che si fa strada lentamente, ma che ha in sé un’efficacia tale da trasfigurare ogni cosa con il riflesso della risurrezione che proclama. Lei arranca in salita, cercando di non perdere la traccia e il passo, e non ha nessuna importanza quanto “tempo” durerà il cammino, perché per il cuore e per la mente che tendono all’approdo la misura si dilata verso l’eterno.

cap. 16 Il giogo dolce e leggero

Qualche scossone in un paio di curve ravvicinate obbliga una giovane, che si è alzata per prepararsi all’uscita, ad aggrapparsi allo schienale più vicino. Per reggersi meglio in equilibrio ogni tanto cambia mano: mani curate, cariche di anelli, più anelli per ogni dito. È impossibile capire se è fidanzata, sposata… Con quanto orgoglio invece lei ha sempre portato la sua fede matrimoniale, esultando ogniqualvolta si accorgeva che veniva notata! Un cerchietto d’oro di una semplicità disarmante, ma di una potenza evocatrice sacramentale indiscussa. Mettendolo in mostra ha sempre dichiarato forte a tutti, ma prima di tutti a se stessa, il suo stato civile di coniugata.
Ho scelto di vivere in coppia, ho scelto di passare dalla prima persona singolare, io, alla prima persona plurale, noi. Per sempre.
Mentre sussurra queste parole, indugia ad osservare l’anello che porta all’anulare sinistro: non ci sono dubbi, mantiene intatto il suo valore di simbolo che la congiunge indissolubilmente al compagno della sua vita. Lei si considera ancora “coniugata” e continua ad essere legata a suo marito da quel “giogo dolce e leggero” formato idealmente da loro due.
Hanno unito per tanti anni le loro volontà per farne sgorgare un’unica speranza, uno stesso desiderio, una medesima regola di vita, uno stesso spirito di servizio.
Insieme sempre, nella sofferenza come nella gioia, con il Signore, davanti alla sua mensa, fino all’estremo sacrificio. Insieme ancora, nel silenzio, nella preghiera… il braccio di lui ancora intorno alle sue spalle, per proteggerla, per sollevarla fino alle altezze sfolgoranti dove un giorno dimoreranno beati, in una festa nuziale senza fine.

cap. 17 Costi quel che costi

Immagina le ruote che scorrono veloci sulla carreggiata e sospingono l’autovettura verso la sua destinazione ripetendo il loro giro, sapientemente predisposte per la loro funzione.
, pensa soddisfatta, il mio matrimonio funziona ancora e continua a viaggiare sicuro come questo pullman, ma senza il “fine corsa”. Quella che sembrava l’ultima fermata in realtà era solo una tappa.
Ricorda le gare di motoscafi sul fiume quando era bambina: la fase più critica, affascinante e decisiva era il giro di boa. Si modificavano l’assetto del natante e la tenuta in acqua perché diverse diventavano la velocità e la corrente sotto la spinta del cambiamento di rotta, ma era sempre lo stesso equipaggio a controllare il mezzo e il tragitto. “Così è questo momento nel mio matrimonio: un giro di boa…
Si meraviglia di quelle strane considerazioni e si domanda se la mente non cominci a vacillare e la ragione a scardinarsi. Dorme poco la notte e di giorno si sente quasi rincitrullita, ma non prende tranquillanti la sera, perché di notte, quando si fa più forte la nostalgia di ali per raggiungere nuvole e cieli stellati, riesce ad avvertire in qualche fugace istante la presenza di colui che non è più materialmente accanto. È come un’ombra che la sfiora, l’accarezza e l’avvolge, non un’ombra fredda, ma ardente senza far male e lei non è mai abbastanza rapida per fermare quell’attimo.
Che pretesa voler varcare la soglia del mondo senza tempo quando ancora non riesce ad accettarsi separata dal corpo vivo del marito! Senza quel corpo come compagno si sente mutilata, spaventata; eppure quel corpo è stato “lasciato indietro” coscientemente e serenamente da uno spirito che ormai andava troppo in fretta, che correva verso “casa” purificato, sciolto dai vincoli della materia.
Si è addormentato nella fede e dorme il sonno della pace… Io invece mi sveglio la mattina e il giorno che si apre mi pesa addosso come una condanna appena mi rendo conto che lui è morto! Alcuni passi avanti, altri indietro… ecco come vanno le cose per lei che sta tenendo stretta coi denti la speranza, posizionando a forza di lacrime piccoli tasselli per riappacificarsi con “sorella nostra morte corporale”.

cap.18 Oltre il capolinea

Capolinea, si scende. Nel corridoio passa un bimbo imbronciato che strige un animaletto di peluche, mentre una mano adulta lo trascina. Raccoglie in fretta la sua roba e intanto le vengono in mente i suoi gatti, teneramente fusanti, che le si strusciano contro e che lei attira a sé stretti, stretti, affondando il viso nel pelo morbido, sentendoli interamente e senza complicazioni comunicative dalla sua parte.
Sorride, ma subito analizza i suoi sentimenti.
Però non sono surrogati affettivi, rimedi alla solitudine, continuano ad essere semplicemente “i nostri gatti” perché tu, mio tesoro ormai nascosto, sei sempre con me e non sei sostituibile. Fa’, ti prego, che mi senta ancora sicura al tuo fianco… Sull’amarezza delle mie ferite versa balsamo e miele. Quando dentro si scatena la tempesta reggi bussola e timone. Tra i rovi e nel deserto dei giorni diventa spada e bisaccia. Ai miei passi incerti e dispersi indica la mappa e il sentiero. E nel silenzioso buio delle notti sii stella e musica.
Le pare proprio di udire la voce di suo marito vibrante d’amore che le risponde recitando con dolcezza e intensità i versi che qualcuno le ha messo in mano qualche sera prima.

Se dovessi essere il primo a morire,
Non lasciare che il dolore oscuri il tuo cielo,
Sii coraggiosa e modesta nel tuo lutto.
È un cambiamento ma non un addio.
Perché come la morte è parte della vita,
Così i morti vivono nei vivi.
E tutte le ricchezze raccolte nel tuo viaggio,
I momenti condivisi, i misteri svelati,
Il lento accumularsi dell’intimità serbata,
Le cose che ci fecero piangere o cantare,
La gioia della neve splendente sotto il sole
O il primo fremito della primavera,
Il linguaggio senza parole degli sguardi e dei gesti,
Ogni cosa che abbiamo conosciuto,
Ogni cosa data, ogni cosa presa,
Questi non sono fiori che appassiscono,
Né alberi che cadono e si disfano,
E neppure pietra,
Perché la pietra cede sotto la pioggia e il vento
E possenti montagne si riducono a niente.
Quel che eravamo, siamo.
Quel che avevamo, abbiamo.
Il nostro passato unito in un eterno presente.
E così quando cammini nei boschi dove andavamo insieme
O ti fermi come facevamo sempre sulla collina
Quando con la mano cerchi la mia mano,
Quando la tristezza ti si insinua dentro,
Non muoverti.
Chiudi gli occhi.
Respira.
Ascolta il mio passo nel tuo cuore.
Non me ne sono andato,
Cammino dentro di te.



versione con righe accorpate
Se dovessi essere il primo a morire,
Non lasciare che il dolore oscuri il tuo cielo,
Sii coraggiosa e modesta nel tuo lutto.
È un cambiamento ma non un addio.
Perché come la morte è parte della vita,
Così i morti vivono nei vivi.
E tutte le ricchezze raccolte nel tuo viaggio,
I momenti condivisi, i misteri svelati,
Il lento accumularsi dell’intimità serbata,
Le cose che ci fecero piangere o cantare,
La gioia della neve splendente sotto il sole
O il primo fremito della primavera,
Il linguaggio senza parole degli sguardi e dei gesti,
Ogni cosa che abbiamo conosciuto,
Ogni cosa data, ogni cosa presa,
Questi non sono fiori che appassiscono,
Né alberi che cadono e si disfano, E neppure pietra,
Perché la pietra cede sotto la pioggia e il vento
E possenti montagne si riducono a niente.
Quel che eravamo, siamo. Quel che avevamo, abbiamo.
Il nostro passato unito in un eterno presente.
E così quando cammini nei boschi dove andavamo insieme
O ti fermi come facevamo sempre sulla collina
Quando con la mano cerchi la mia mano,
Quando la tristezza ti si insinua dentro, Non muoverti.
Chiudi gli occhi. Respira. Ascolta il mio passo nel tuo cuore.
Non me ne sono andato, Cammino dentro di te.



cap. 19 Il viaggio per lei continua
Esce dalla stazione, si mescola alla gente, si muove quasi trasognata, ha il cuore cha batte all’impazzata e un groppo in gola, ma tra mille rumori assordanti riesce ad avvertire un fruscio dolcissimo, uno sfarfallio d’ali… Il viaggio per lei continua… alla ricerca del segreto per essere felice nel dolore: l’attesa sicura della pienezza di un interminabile abbraccio nella perfezione dell’Eterno.




cap. 20 Non abbiamo finito di amarci
(di Michel Quoist)

Mi sono svegliata, Signore,
...e lui non c’era più.
Nel mio letto mi sono voltata,
...ma il suo posto era vuoto,
e le mie dita solitarie cercavano ancora le sue.

Il mio amore è presso di Te,
lo credo, lo spero,
ma non posso abituarmi, Signore,
alla sua assenza,
ed ogni risveglio è per me uno strazio,
come strazio è
il risveglio del malato dalle membra amputate.

Non c’è più!

Non lo sentirò più, canto che ora tace,
non sarò più il suo campo
pronto alla quotidiana aratura.
Non percorrerò più sul suo volto amato
i solchi delle rughe,
dove spigolavo la vita,
gli ultimi chicchi di vita,
che giorno dopo giorno,
nella gioia e nel dolore,
avevamo seminato,
mietuto,
mille frutti d’amore.
Non andrò più in cerca nel profondo dei suoi occhi
della dolce luce del suo tramonto,
dopo i chiari mattini,
il fuoco del mezzogiorno,
e qualche volta l’ombra dei giorni,
quando le nuvole si addensavano
e scoppiava il temporale,
prima che si alzasse nei nostri cuori
l’arcobaleno della pace.

Noi ci amavamo… ma, Signore,
non abbiamo finito di amarci!

Ci amavamo Signore,
ma vivevamo insieme,
egli era in me, ed io ero con lui,
e Tu
suggellavi le nostre vite,
per farne una sola.
Ma lui se n’è andato su quelle rive lontane,
a cui nessuno può giungere
senza attraversare la morte,
e dalla mia riva, coi piedi su questa terra,
io non posso nemmeno scorgerlo,
oh, mio beneamato… scomparso,
lontano,

così lontano,
nelle nebbie dell’infinito.

Non c’è più!

Si dice che ci si abitua, Signore,
che il tempo lavora per noi,
ma adesso lo so,
né il tempo, né la morte possono vincere l’amore,
perché un mattino ho sussurrato “per sempre”,
lui mi ha detto “per sempre”,
e tu ci hai promesso
che ci saremmo amati in eterno.
Non vedo, Signore,
ma voglio credere,
credo.

Non abbiamo finito di amarci!

Ma ieri, insieme,
ogni giorno,
tiravamo avanti,
perché cercando la felicità dell’altro,
spesso cercavamo la nostra.
Ora davamo, prendevamo,
ma gli sforzi ripetuti
accrescevano il nostro amore.

Oggi siamo entrati in purgatorio.
Io soffro d’essere sola,
lui soffre di essere lontano,
può forse essere felice senza di me,
quando sono così infelice senza di lui?
Ma lui, Signore, è nella tua luce,
che purifica il nostro amore,
mentre io
devo perfezionarlo
nella notte.

Aiutami, mio Dio,
ad amarlo nella sua assenza
oggi più ancora
di ieri nella sua presenza.
Amarlo infine, per se stesso, senza voler nulla in cambio,
felice che egli sia felice
di essere vicinissimo a “Te”,
raccogliendo per me
solo la gioia della sua “gioia”.

Sì, il mio amore è intatto, vive nel mio cuore,
nulla può la morte,
questa è la mia sofferenza,
perché la mia sorgente non si è inaridita, Signore,
scorre e trabocca.
Un crescendo di parole di amore,
e di mille gesti di affetto,

una riserva di sorrisi rimasti inutili,
una pioggia di lacrime che mi inonda il cuore,
facendo crescere più in fretta ancora
tutti quei fiori d’amore.
Non li lascerò, Signore,
intristire,
appassire,
chiusi nel mio cuore,
ma li raccoglierò ogni giorno,
messe meravigliosa per i miei figli,
nipoti,
amici,
vicini,
e tutti i mendicanti dimenticati,
che elemosinano queste briciole di amore
sul ciglio della mia strada.

Ma la mia sofferenza, Signore,
resta sofferenza!
Solitudine tremenda, lunghe giornate,
notti soffocanti,
l’assenza,
crudele assenza,
vuoto profondo ove il mio cuore certe sere,
si tuffa smarrito senza trovare il fondo.
Lui mi manca, Signore, capisci ?
Mi manca!
Perché mi hai abbandonata?

Perdono, Signore,
perdono per i miei scoraggiamenti,
“Tu”che dalla croce ogni giorno mi fai segno.
È quando dimentico di guardarti
che la notte mi assale.
“Tu”mi aspetti
e lui vicino a “Te” mi guarda,
e con il suo amore mi invita,
mi guida e mi sostiene.

Grazie a Te, Signore,
grazie a lui,
la mia stessa sofferenza non sarà inutile,
perché ti offrirò questa esuberanza di amore
che da me esige,
amore che vive e cresce al di là della mia sofferenza.
Lo offrirò per quei giovani esploratori d”amore,
che cercano senza trovare,
perdendosi,
innocenti,
nei miraggi di un istante.
Loro non sanno, Signore,
cosa vuol dire amare,
spogliarsi di sé per donarsi all’altro,
e spalancare il cuore per accogliere il suo dono.
Loro che non sanno

che l’amore è molto spesso sofferenza
prima di essere gioia,
gioia per una vita nuova che si fa carne
in due vite che si uniscono,
senza mai distruggersi.
Loro che non sanno
che non è amore se non è “per sempre”,
e che Tu solo puoi donare
a questo amore la sua dimensione di infinito.

Vorrei poterlo dire loro, Signore,
dirlo con la mia vita,
e poiché presso di “Te” il mio amore mi aspetta,
nella pace, anch’io
aspetterò l’incontro,
e di questo nuovo fidanzamento,
crudele e dolce fidanzamento,
di questa attesa, farò un’offerta,
prima che fra le braccia del mio fedele amore
noi ci amiamo, finalmente,
Signore,
come si ama presso di “Te”,
“infinitamente” ,“eternamente”.



versione con righe accorpate
Mi sono svegliata, Signore, ...e lui non c’era più.
Nel mio letto mi sono voltata, ...ma il suo posto era vuoto,
e le mie dita solitarie cercavano ancora le sue.

Il mio amore è presso di Te, lo credo, lo spero,
ma non posso abituarmi, Signore, alla sua assenza,
ed ogni risveglio è per me uno strazio,
come strazio è il risveglio del malato dalle membra amputate.

Non c’è più!

Non lo sentirò più, canto che ora tace,
non sarò più il suo campo pronto alla quotidiana aratura.
Non percorrerò più sul suo volto amato i solchi delle rughe,
dove spigolavo la vita, gli ultimi chicchi di vita,
che giorno dopo giorno, nella gioia e nel dolore,
avevamo seminato, mietuto, mille frutti d’amore.
Non andrò più in cerca nel profondo dei suoi occhi
della dolce luce del suo tramonto,
dopo i chiari mattini, il fuoco del mezzogiorno,
e qualche volta l’ombra dei giorni,
quando le nuvole si addensavano e scoppiava il temporale,
prima che si alzasse nei nostri cuori l’arcobaleno della pace.

Noi ci amavamo… ma, Signore, non abbiamo finito di amarci!

Ci amavamo Signore, ma vivevamo insieme,
egli era in me, ed io ero con lui,
e Tu suggellavi le nostre vite, per farne una sola.
Ma lui se n’è andato su quelle rive lontane,
a cui nessuno può giungere senza attraversare la morte,
e dalla mia riva, coi piedi su questa terra,
io non posso nemmeno scorgerlo,
oh, mio beneamato… scomparso, lontano,
così lontano, nelle nebbie dell’infinito.

Non c’è più!

Si dice che ci si abitua, Signore, che il tempo lavora per noi,
ma adesso lo so, né il tempo, né la morte possono vincere l’amore,
perché un mattino ho sussurrato “per sempre”,
lui mi ha detto “per sempre”,
e tu ci hai promesso che ci saremmo amati in eterno.
Non vedo, Signore, ma voglio credere, credo.

Non abbiamo finito di amarci!

Ma ieri, insieme, ogni giorno, tiravamo avanti,
perché cercando la felicità dell’altro, spesso cercavamo la nostra.
Ora davamo, prendevamo,
ma gli sforzi ripetuti accrescevano il nostro amore.

Oggi siamo entrati in purgatorio.
Io soffro d’essere sola, lui soffre di essere lontano,
può forse essere felice senza di me,
quando sono così infelice senza di lui?
Ma lui, Signore, è nella tua luce, che purifica il nostro amore,
mentre io devo perfezionarlo nella notte.

Aiutami, mio Dio, ad amarlo nella sua assenza
oggi più ancora di ieri nella sua presenza.
Amarlo infine, per se stesso, senza voler nulla in cambio,
felice che egli sia felice di essere vicinissimo a “Te”,
raccogliendo per me solo la gioia della sua “gioia”.

Sì, il mio amore è intatto, vive nel mio cuore,
nulla può la morte, questa è la mia sofferenza,
perché la mia sorgente non si è inaridita, Signore,
scorre e trabocca.

Un crescendo di parole di amore, e di mille gesti di affetto,
una riserva di sorrisi rimasti inutili,
una pioggia di lacrime che mi inonda il cuore,
facendo crescere più in fretta ancora tutti quei fiori d’amore.
Non li lascerò, Signore, intristire, appassire,
chiusi nel mio cuore, ma li raccoglierò ogni giorno,
messe meravigliosa per i miei figli, nipoti, amici, vicini,
e tutti i mendicanti dimenticati,
che elemosinano queste briciole di amore
sul ciglio della mia strada.

Ma la mia sofferenza, Signore, resta sofferenza!
Solitudine tremenda, lunghe giornate, notti soffocanti,
l’assenza, crudele assenza,
vuoto profondo ove il mio cuore certe sere,
si tuffa smarrito senza trovare il fondo.
Lui mi manca, Signore, capisci ? Mi manca!
Perché mi hai abbandonata?

Perdono, Signore, perdono per i miei scoraggiamenti,
“Tu” che dalla croce ogni giorno mi fai segno.
È quando dimentico di guardarti che la notte mi assale.
“Tu” mi aspetti e lui vicino a “Te” mi guarda,
e con il suo amore mi invita, mi guida e mi sostiene.

Grazie a Te, Signore, grazie a lui,
la mia stessa sofferenza non sarà inutile,
perché ti offrirò questa esuberanza di amore che da me esige,
amore che vive e cresce al di là della mia sofferenza.
Lo offrirò per quei giovani esploratori d’amore,
che cercano senza trovare, perdendosi, innocenti,
nei miraggi di un istante.
Loro non sanno, Signore, cosa vuol dire amare,
spogliarsi di sé per donarsi all’altro,
e spalancare il cuore per accogliere il suo dono.

Loro che non sanno che l’amore è molto spesso sofferenza
prima di essere gioia, gioia per una vita nuova che si fa carne
in due vite che si uniscono, senza mai distruggersi.
Loro che non sanno che non è amore se non è “per sempre”,
e che Tu solo puoi donare
a questo amore la sua dimensione di infinito.

Vorrei poterlo dire loro, Signore, dirlo con la mia vita,
e poiché presso di “Te” il mio amore mi aspetta,
nella pace, anch’io aspetterò l’incontro,
e di questo nuovo fidanzamento,
crudele e dolce fidanzamento,
di questa attesa, farò un’offerta,
prima che fra le braccia del mio fedele amore
noi ci amiamo, finalmente, Signore,
come si ama presso di “Te”, “infinitamente” ,“eternamente”.



ALI DI PARTENZA è un libro scritto da Angela Grignani
e illustrato da Gamba Umberto.
Edizioni FERRARI Clusone (Bergamo)

E' richiedibile scrivendo via e-mail o telefonando al pittore Umberto Gamba.


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